IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
                          Ritenuto in fatto 
    B. E. sta espiando la pena di anni nove e mesi due di  reclusione
di cui al provvedimento di cumulo del 7 aprile 2008 della Procura  di
Palermo, per i reati di  rapina  aggravata,  furto,  ricettazione  ed
altro. 
    Con ordinanza del 10 luglio 2008 del Tribunale di sorveglianza di
Palermo il condannato e' stato ammesso alla misura  del  differimento
obbligatorio dell'esecuzione della pena, in quanto  affetto  da  AIDS
conclamata incompatibile con il regime  penitenziario  ed  in  stadio
cosi' avanzato da non rispondere piu' alle  terapie  praticate,  come
risultante  dalle  certificazioni  sanitarie   acquisite   in   atti,
adottando  le  forme  della  detenzione  domiciliare  ai  sensi   del
combinato disposto degli artt. 146 c.p. e 47-ter, comma  1-ter,  o.p.
in  ragione  della  spiccata  pericolosita'  sociale   del   soggetto
desumibile dai suoi numerosi, gravi e  specifici  precedenti  penali,
giudiziari e penitenziari, reiterati in un lungo arco temporale  fino
ad epoca recente (cfr. la citata ordinanza e il certificato penale in
atti). 
    Nel corso dell'esecuzione della detenzione domiciliare il  B.  e'
stato  denunziato  per  evasione,  rapina  aggravata  e  si  e'  reso
irreperibile (cfr. comunicazione della notizia di reato e decreto  di
irrepenbilita' in atti), con conseguente  sospensione  cautelativa  e
successiva revoca della misura con ordinanza del  23  settembre  2008
dello stesso Tribunale. 
    Riarrestato in data  20  ottobre  2008,  la  Direzione  sanitaria
dell'Istituto di Palermo-Ucciardone  ha  subito  segnalato  il  grave
deficit immunitario del B. incompatibile con il regime  penitenziario
(cfr. relazione sanitaria in atti), ripresentando sostanzialmente  il
medesimo quadro patologico e clinico gia' valutato nell'ordinanza del
10 luglio 2008 prima citata. 
    Il  Tribunale  di  sorveglianza  ha   conseguentemente   promosso
d'ufficio il  procedimento  per  l'eventuale  nuova  concessione  del
beneficio  del  differimento   obbligatorio   ex   art.   146   c.p.,
riservandosi di decidere all'udienza del  4  novembre  2008  come  da
verbale in atti. 
                       Considerato in diritto 
    Ai fini  del  presente  giudizio  si  appalesa  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 146, comma 1 n. 3 c.p. in relazione agli  artt.  2,  3,  27
della Costituzione. 
    L'art. 146, comma 1 n. 3) c.p.  prevede  l'obbligo  di  differire
l'esecuzione della  pena  allorche'  questa  debba  avere  luogo  nei
riguardi di persona affetta da AIDS conclamata o  da  altra  malattia
particolarmente grave per effetto della quale le  sue  condizioni  di
salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando  la
malattia sia pervenuta in uno stadio  cosi'  cosi'  avanzato  da  non
rispondere piu', secondo le  certificazioni  del  servizio  sanitario
penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili  o  alle  terapie
curative. 
    Con  riferimento  ai  soggetti  affetti  da  AIDS  il   carattere
«obbligatorio» di tale differimento discende dalla valutazione legale
tipica della gravita' di tale patologia e dalla presunzione legale di
incompatibilita'  con  la  detenzione  in  ambiente  carcerario   ove
ricorrano le condizioni normativamente previste  riguardo  lo  stadio
evolutivo della malattia e l'inefficacia dei trattamenti  disponibili
e delle terapie curative. 
    Nell'attuale quadro normativo la fattispecie esaminata si combina
con   la   previsione   di   cui   all'art.   47-ter,   comma   1-ter
dell'ordinamento penitenziario, a mente della quale «quando  potrebbe
essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo  dell'esecuzione
della pena ai sensi degli artt. 146  e  147  c.p.,  il  tribunale  di
sorveglianza, anche se la pena supera  il  limite  di  cui  al  primo
comma, puo' disporre l'applicazione della detenzione domiciliare». 
    Tale  disposizione,  finalizzata  a  colmare  una  lacuna   della
previgente normativa per la quale, in  presenza  dei  presupposti  di
fatto indicati negli art. 146 e 147 c.p.,  s'imponeva  un'alternativa
secca tra carcerazione e liberta' senza vincoli, viene a  configurare
la polifunzionalita' del regime detentivo domiciliare che e'  mirato,
per    un    verso,    all'esigenza    di garantire    l'effettivita'
dell'espiazione della pena  ed  il  necessario  controllo  cui  vanno
sottoposti i soggetti pericolosi; per altro verso ad  una  esecuzione
penale compatibile con il senso  di  umanita'  e  con  la  necessaria
assistenza sanitaria del condannato attraverso gli opportuni contatti
con i presidi territoriali. 
    Cionondimeno, qualora  lo  stato  di  detenzione  domiciliare  si
palesi assolutamente inidoneo a fronteggiare la pericolosita' sociale
del soggetto, manifestatasi mediante  violazioni  delle  prescrizioni
inerenti al relativo regime o,  nei  casi  piu'  gravi,attraverso  la
commissione di reati, non appare possibile, alla stregua del  vigente
quadro normativo, salvaguardare adeguatamente  l'esigenza  di  tutela
della collettivita'  disponendo  la  revoca  di  tale  misura  ed  il
ripristino dell'esecuzione della pena in carcere. 
    Cio' in quanto il meccanismo previsto dall'art. 146  c.p.  impone
al giudice, in presenza delle situazioni sopra descritte  e  dopo  la
revoca  della  detenzione  domiciliare,  di  disporre  nuovamente  il
differimento  obbligatorio,  inibendogli   qualsivoglia   valutazione
discrezionale in ordine all'opportunita' di negare l'applicazione  in
ragione  della  pericolosita'  sociale  manifestata  dal  soggetto  e
risultata  in  concreto  contenibile  solo   attraverso   il   regime
carcerario. 
    La norma teste' citata appare in contrasto  con  l'art.  3  della
Costituzione   per   lesione   del    fondamentale    canone    della
ragionevolezza. 
    Ed invero la scelta del  legislatore,  allorche'  sono  in  gioco
interessi  costituzionali  potenzialmente  configgenti,  soggiace  al
limite della ragionevolezza nel  senso  che  un  interesse  non  puo'
prevalere in modo aprioristico ed ingiustificato rispetto agli altri. 
    Viene  dunque  in  rilievo  l'esigenza  del  bilanciamento  degli
interessi che non  puo'  prescindere  dalla  razionalita'  intrinseca
della norma e dalla sua conformita' e congruita' rispetto agli  scopi
perseguiti. 
    Orbene, poiche' la ratio sottesa alla disciplina dettata in  tema
di differimento obbligatorio e' ravvisabile nella tutela della salute
- sotto il duplice profilo della integrita' fisica del  condannato  e
dei membri del consorzio carcerario  -,  la  norma  in  questione  e'
sicuramente conseguente a ha  ponderazione  di  tale  interesse,  non
suscettibile, tuttavia,  di  obliterare  del  tutto  gli  altri  beni
costituzionalmente  rilevanti  come  quelli  legati  alla   sicurezza
collettiva ed alla effettivita' del sistema penale. 
    L'automatica e obbligatoria  concessione  del  beneficio  genera,
nell'ipotesi in cui il destinatario del differimento sia un  soggetto
contrassegnato da  una  attuale  ed  elevata  pericolosita'  sociale,
l'effetto di esporre  a  grave  pericolo  fondamentali  valori  della
collettivita'  e  dei  singoli  quali  la  vita,  l'incolumita',   il
patrimonio e la stessa  salute  individuale  e  collettiva,  tutelati
dall'art.2 della Costituzione, che pertanto appare pure violato. 
    Ed,  infatti,  con  specifico  riferimento  all'Aids,  non   puo'
aprioristicamente escludersi che, pur in presenza  di  una  patologia
connotata dai requisiti di gravita', stadio avanzato e refrattarieta'
alle terapie, un soggetto possa mantenere condizioni  personali  tali
da non compromettere le  sue  capacita'  psico-fisiche  di  porre  in
essere  comportamenti  socialmente  nocivi  o,  addirittura,   azioni
delittuose, dimostrando cosi' che tale patologia non ha dunque  avuto
significativa incidenza sulla predisposizione criminosa dello stesso. 
    Cio', a ben vedere, e' quanto avvenuto nel caso del B. come sopra
descritto nella premessa in fatto. 
    A fronte  di  tali  ipotesi,  tutt'altro  che  infrequenti  nella
prassi, la soluzione normativa apprestata dal  legislatore  sacrifica
in modo  sproporzionato  ed  irragionevole  gli  anzidetti  interessi
costituzionalmente garantiti cui  corrispondono  altrettanti  diritti
fondamentali. 
    Sotto tale profilo, appare  per  di  piu'  priva  di  ragionevole
giustificazione  la  differenza  rispetto  alla   disciplina   recata
dall'art. 147, ultimo comma c.p., la quale opportunamente consente di
ancorare la concessione del rinvio ad  un  giudizio  prognostico,  da
formulare alla stregua delle emergenze del caso concreto, avente  per
oggetto il pericolo di commissione di nuovi delitti. 
    Sul punto va osservato che la Corte costituzionale, con  sentenza
n. 438 del 1995,  gia'  aveva  sancito  un  temperamento  del  rigido
automatismo previsto dall'art. 146, comma 1 n. 3 c.p., dichiarando la
citata disposizione costituzionalmente illegittima nella parte in cui
non consentiva di accertare in concreto se, ai  fini  dell'esecuzione
della pena, le effettive condizioni di salute del condannato  fossero
compatibili con lo stato detentivo. 
    In tal modo la Corte faceva salva la possibilita' di  un  diniego
del differimento in presenza  di  strutture  penitenziarie  idonee  a
garantire  un  contemperamento  tra  l'esigenza  di   una   effettiva
espiazione della pena  da  parte  del  condannato  e  la  concorrente
esigenza  di  salvaguardare  la  salute  del  condannato  medesimo  e
dell'intero consorzio carcerario. 
    Tuttavia, la riformulazione legislativa della norma, avutasi  con
la legge n. 40 del 2001, non ha  ribadito  tale  previsione,  optando
piuttosto per un ridimensionamento in senso restrittivo della  platea
soggettiva interessata, mediante il  riferimento  ad  una  condizione
della patologia «cosi' avanzata da non rispondere  piu',  secondo  le
certificazioni del servizio sanitario  penitenziario  o  esterno,  ai
trattamenti disponibili e alle terapie curative». 
    Pertanto, non  appare  chiaro  se  con  la  predetta  novella  il
legislatore  abbia  inteso  obliterare  l'intervento  additivo  della
Consulta, ovvero se l'art. 146 c.p. tuttora consenta  al  giudice  di
valutare  le  circostanze  del  caso  concreto  ed  eventualmente  di
determinarsi, in funzione di esse, nel senso di disporre l'esecuzione
della pena detentiva, quando cio' possa  avvenire  senza  pregiudizio
per la salute del condannato e della restante popolazione carceraria. 
    In ogni caso, anche ove si voglia accedere a quest'ultima opzione
ermeneutica, residua comunque  un  margine  di  irragionevolezza  nel
meccanismo previsto dall'art. 146 c.p. per l'ipotesi in cui  non  sia
disponibile una idonea struttura  carceraria  e  tuttavia  sussistano
concreti  elementi  utili  a  disegnare  un  quadro  di   ragionevole
probabilita' (quando di  non  scontata  certezza)  che  il  soggetto,
beneficiando di un differimento dell'esecuzione della pena  detentiva
ovvero  della  sua  sostituzione  con  la  misura  della   detenzione
domiciliare, commetta nuovi delitti. 
    Di conseguenza, viene meno ogni effetto deterrente  o  dissuasivo
nei confronti dei soggetti in questione, rispetto  ai  quali  non  e'
praticabile  la  strada  della  revoca  del  beneficio   e   la   sua
sostituzione con  l'ordinario  regime  carcerario,  ancorche'  questo
appaia l'unico  in  grado  di  arginarne  la  concreta  pericolosita'
sociale. 
    In  tali  ipotesi  il  sistema  appare  sbilanciato,   risultando
privilegiata la tutela della salute del condannato  a  scapito  della
doverosa salvaguardia  delle  esigenze  di  sicurezza  collettiva  e,
dunque, dei diritti fondamentali dei consociati. 
    Sussiste altresi' il contrasto tra la norma in questione e l'art.
27, primo e terzo comma della Costituzione. 
    L'art. 146 c.p., invero,  finisce  per  svilire  le  funzioni  di
prevenzione generale e speciale e di difesa sociale,  alle  quali  e'
intimamente orientato il sistema penale. 
    Infatti,  l'automatica  e  prevedibile  sospensione  del  momento
esecutivo impedisce alla pena irrogata di intimidire e dissuadere  il
reo  da  ulteriori  comportamenti  criminosi,  oltre  che  gli  altri
consociati che si trovino nella medesima condizione patologica. 
    In sostanza si finisce per  creare  una  platea  di  persone  cui
l'ordinamento consente una sorta di licenza di delinquere. 
    Risulta pure vanificata  la  finalita'  retributiva  della  pena,
poiche' il soggetto rimane sostanzialmente impunito per il reato gia'
commesso e per quegli altri di cui potra' rendersi autore  nel  corso
del differimento (in pratica sine die) del trattamento sanzionatorio. 
    Viene, altresi', frustrato il  fine  rieducativo  della  sanzione
penale, poiche' qualsiasi soggetto, che  si  trovi  nelle  condizioni
della norma censurata, consegue il beneficio indipendentemente da una
positiva  evoluzione  del  trattamento  e  persino  nell'ipotesi   di
reiterazione criminosa. 
    Puo' conclusivamente affermarsi che, nei casi sopra  prospettati,
rischiano di vanificarsi tutte le funzioni e finalita' tipiche  della
pena.